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giovedì 21 luglio 2011

Orso

Un mese fa sono andata dal mio medico, il dottor Limo. Mi piace come dottore perché ha sempre qualche afflizione nuova che lo assilla e un dottore malato lo trovo interessante, è come un santo che non crede ai propri miracoli e questo lo rende talmente imperfetto che lo avverto più simile a me e allora mi fido e ci parlo. Di solito mentre mi visita tendo sempre a sdrammatizzare i miei problemi perché è propenso ad assimilarne i sintomi e così una mia cefalea può causarne in lui un’altra dall’identico profilo.
Quel giorno però stavo proprio male e non finsi.
La diagnosi del dottor Limo fu semplice e lineare: dentro il mio corpo si era annidato un orso bruno, di età adulta, maschio e con un carattere particolarmente ostile.
La scienza non può chiarire tutto, non trova sempre la giusta risposta ai nostri quesiti, ma si può supporre che il mio corpo fosse diventato un ambiente favorevole ai plantigradi: zone tranquille, clima mite, ricco di alimenti di cui sfamarsi.
«I tuoi occhi sono più grandi di un tempo» mi disse.
«Infatti, adesso mi accorgo di vederci meglio» risposi con stupore.
«Le tue orecchie sono più grandi di prima» confermò ancora.
«Infatti, adesso ci sento meglio» ammisi cauta.
Dopo la diagnosi del dottor Limo ogni mio malessere aveva trovato la giusta collocazione, l’orso mi infliggeva terribili dolori. Si arrampicava tra i miei polmoni, dormiva appoggiando la grossa testa sul muscolo cardiaco, continuava serenamente a cacciare. Mi masticava dall’interno, mi sgranocchiava le ossa, mi succhiava il cervello, si deliziava con il mio fegato, passeggiava nell’intestino. Trovavo tregua solo quando giungeva al letargo, ma il mio corpo non ha stagioni sincrone e allora il suo riposo non corrispondeva mai a quello dei suoi simili. Dormiva qualche giorno e poi si svegliava dannatamente affamato. Spesso mi sentivo come se fossi sul punto di morire, a volte persino lo speravo tanto il dolore era vivo e costante.
La realtà di un orso è la sua tana, il cibo, il sonno; per lui la terra non è rotonda, ma cava.
Era quindi impossibile pensare di poter portare avanti questa specie di convivenza, uniti da uno stesso cosmo.
Il dottor Limo non sapeva trovare una cura che fosse valida e poco dolorosa, mi chiese allora in che modo occupassi le giornate.
«Converto il piombo monetario in oro poetico.» dissi con un impercettibile tremore ai denti – «Ma dicono sia pura alchimia.»
Una grossa lacrima si piantò nel camice bianco dell’uomo. Non poteva curarmi, disse.
Strinsi i braccioli della sedia, le giunture delle mani sbiancarono. Affondai le unghie nel palmo. L’orso si agitava, correva sulla mia carne, la dilaniava, strappava grappoli di vene. Scendeva in profondità sempre in cerca di cibo, mai totalmente sazio.
«Quindi non invecchierò?» chiesi.
Il dottor Limo mi guardò con dolcezza.
«Nessuno invecchia più. Gli oggetti e i vestiti ci offrono una maschera cangiante dietro cui nasconderci. Si vive ormai un’eternità per ogni nuova collezione di pret-à-porter» e zoppicando fino alla porta mi congedò con una carezza.
Giunta a casa mi sistemai in poltrona e accesi la televisione in cerca di uno svago. L’orso si svegliò e con un balzo si attaccò direttamente alla colonna vertebrale facendo trasalire, ad ogni zampata, un flusso di midollo spinale.
Spensi la televisione e, stremata dal dolore, mi addormentai.
Una voce di bambina parlava spedita.
«Quanti momenti decisivi ci sono stati nella tua vita?»
L’immagine giunse altrettanto spedita. Una bambina con un buffo cappello rosso si era persa nel bosco. Lo ricordavo benissimo. Avevo litigato con mia madre e, cercando rifugio oltre la porta, avevo puntato la montagna, il suo clivio screziato di vegetazione. Avevo camminato per ore e solo verso sera mi ero resa conto di non sapere affatto dove fossi finita. Non riconoscevo gli alberi, men che meno i sassi, niente mi era più familiare, seduta a terra iniziai a singhiozzare finché il fiato mi si spezzò in gola.
Due cuccioli d’orso si rincorrevano in capriole multiple sulla grande dorsale della montagna. Erano cuccioli ispidi, scuri, due ricci di castagna che rotolavano a valle. Stavo per avvicinarmi quando dietro di loro comparve la madre, maestosa come un albero.
Non so se avvertì la mia presenza accucciata tra i rovi, ma si alzò sulle gambe posteriori e urlò un avvertimento alla foschia del bosco. L’occhio nero spalancato nell’oscurità, la bava che colava tra i denti e il collo proteso fin quasi a strozzarsi. Per un attimo addirittura la purezza di quell’avvertimento mi incantò provocandomi una calda tentazione di odio.
La madre non odiava per se stessa, odiava per i figli.
Mi sdraiai a terra, potevo sentire il sapore del muschio. Sprofondai il viso dentro al fango e mi sentii un nulla, un chicco di riso, un gambo di ciliegia.
Mi svegliai sudata e in cerca di fresco spalancai la finestra. Con lo sguardo incrociai la dorsale del bosco, quella del sogno, quella dei miei primi undici anni.
Una scossa del ventre mi fece sobbalzare. Tremai con tutto il corpo, stavo malissimo. Le mani stringevano il davanzale. Sentivo nella testa un concerto di tamburi che si avvicinava diventando via via più assordante. Il respiro mi si bloccò in gola e in uno spasmo avvertii una palla enorme risalirmi l’esofago. Di colpo il muso di un orso mi uscii dalla bocca facendomi scricchiolare la mandibola. Sentivo che spingeva, si contorceva. Mugolava, sembrava un neonato, spingeva. Le zampe passarono raschiandomi il palato e finalmente, con un’ultima zampata, uscì completamente e si lanciò su per il bosco. Corse lungo i sentieri, strappò qualche ramo, recise qualche testa di fiore e poi sparì sprofondando nella vegetazione.
Quel pomeriggio di dolore piansi, mi raccolsi le gambe e, fissando l’eterna giovinezza della tappezzeria, vidi nello specchio la fosforescenza del mio corpo. Quella fosforescenza che solo gli amori corrisposti irradiano in un mondo così sfasato dove niente trova il suo posto.

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